Qualche giorno fa alle audizioni di X Factor 2018 si è esibita la giovanissima cantante Martina Attili che ha fatto venire a tutti la pelle d’oca parlando della sua paura di essere felice: la cherofobia.

Ma questa fobia esiste davvero?

Nel DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) non c’è, non è quindi considerata come un vero e proprio disturbo psicologico. Ma non tutto quello che esiste nella realtà è sempre stato ben classificato dagli esseri umani, ed inoltre, a sentire Martina, pare che i sintomi siano più che reali per lei (e non solo per lei).

Partiamo dalla canzone e cerchiamo di capire meglio cos’è la cherofobia e se esista davvero questa “paura della felicità”.

Come te la spiego la paura di essere felici 
quando non l’hanno capita nemmeno i miei amici. 

Prima caratteristica sulla quale soffermarci: non saperlo spiegare agli altri. Ok, questo succede un po’ con tutti i disturbi, perché quando si prova a descrivere la propria sofferenza a qualcuno che non la vive si finisce sempre per sentirsi profondamente soli. Così, oltre al dolore della patologia in sé, si finisce per potarsi dietro anche un dolore aggiunto: il sentirsi incompresi.

Ma l’incomprensione non è un sintomo specifico della cherofobia, è più che altro un “accessorio”, non siamo ancora arrivati al cuore della questione, quindi, andiamo avanti…


Mi dicono di stare calma quando serve 
mi portano del latte caldo e delle coperte. 

Ecco, qui possiamo intravedere un sintomo più specifico: il freddo interiore, l’angoscia, l’ansia (che gli altri tentano di tamponare con le forme più disparate di conforto). L’impossibilità di stare calmi in una situazione che per gli altri è del tutto normale.

Ed è proprio quando stanno a parlare che vorrei gridare 
grazie a tutti 
ora potete andare, 
ma resto qui 
a guardare un film.

E siamo alla terza caratteristica: la ricerca di isolamento, la necessità di chiudersi in una realtà conosciuta (guardare un film), che quindi non faccia paura, e che, magari, sappia distrarre. Perché il cherofobico ha bisogno di estraniarsi dalla realtà, ha bisogno di allontanarsene.

Ed evita, evita tutte le situazioni (sociali, cambiamenti di vita, occasioni) che potrebbero condurlo a un miglioramento della sua condizione essendo convinto del fatto che immediatamente dopo la sensazione di felicità arriverà di certo qualcosa che rovinerà tutto.

E’ questo il punto focale della cherofobia.

Si dice, per semplificare, che il cherofobico abbia paura della felicità, ma in verità, il cherofobico non ha paura della felicità in se stessa, ha paura di quando questa felicità non ci sarà più.

Ha sempre quella sensazione spaventosa ed invadente, subdola e nascosta, che anche nel momento più gioioso al mondo sia in attesa, da qualche parte, l’altro lato nefasto della medaglia: l’attimo in cui quel momento sarà passato e al suo posto ci sarà solo il vuoto, il dolore, il non senso.

Meglio non provare nulla allora, meglio non cambiare niente, almeno l’equilibrio attuale lo si conosce, si sa cosa aspettarsi, quali sensazioni sentire e quali non aspettarsi più.

Ma d’altra parte, come dargli torto?

Non è forse altamente probabile che ad una gioia possa seguire un dolore? Che un amore nato lasci prevedere anche la sua probabile fine, che ogni alba sia solo l’inizio del prossimo tramonto?

Così, per non soffrire, preferisco non gioire.

Sto fermo, nel mio stagno emotivo esistenziale ed evito accuratamente tutte le onde che potrebbero portarmi troppo in alto e poi farmi cadere giù.

Evito i cambiamenti potenzialmente favorevoli, perché potrebbero cambiare ancora e lasciarmi lì attonito con la bocca asciutta.

Evito le situazioni sociali troppo coinvolgenti, perché quando si saranno esaurite, mi sentirò più solo e sentirò assenze insopportabili da sentire.

Evito l’amore, perché quando finirà, potrebbe distruggermi.

In poche parole, evito di vivere, perché la morte mi farebbe troppo male e scelgo di sopravvivere.

Ma proprio a causa di questa soluzione di evitamento che adotto, proprio a causa del fatto che rinuncio alla felicità pur di non sentire la sofferenza, mi indebolisco.

Eh si perché, senza rendermene conto, è proteggendomi che mi metto più a rischio.

Perché se è vero che tutto cambia e che l’ombra è sempre dietro l’angolo, anche quello che in questo momento mi sembra sicuro e stabile potrebbe cambiare, spezzarsi, frantumarsi. Solo che, quando accadrà, io non sarà pronto a gestirlo, perché, come accade a chi si chiude in casa per evitare le malattie, non ho mai dato modo al mio “organismo esistenziale” di farsi gli anticorpi e quando arriva la malattia mi annienta davvero.

La soluzione a tutto questo?

Non si tratta sicuramente di convincersi che la felicità durerà per sempre (sarebbe ingenuo e sarebbe una illusione che aprirebbe le porte a tutte le delusioni successive), ma di comprendere che evitare la vita è proprio ciò che alimenta la paura di farsi male, perché evitando si diventa più vulnerabili, e più deboli.

La strada, quindi, è quella di vaccinarsi al dolore, alla sensazione di vuoto che coglie ognuno di noi quando una felicità sulla quale contavamo viene a mancare.

Armarsi interiormente, emotivamente, esistenzialmente per diventare capaci di fronteggiare le parentesi di dolore che possono esistere tra un periodo felice e l’altro, e perché no, imparare anche a coglierne i benefici nascosti, perché, come diceva la terapeuta Elizabeth Kubler Ross: La vita è come una centrifuga, sei tu che decidi se uscirne distrutto o ben levigato.


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