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Cherofobia, Martina Attili e X Factor: ma esiste davvero la paura di essere felici o si tratta di qualcos’altro?

Qualche giorno fa alle audizioni di X Factor 2018 si è esibita la giovanissima cantante Martina Attili che ha fatto venire a tutti la pelle d’oca parlando della sua paura di essere felice: la cherofobia.

Ma questa fobia esiste davvero?

Nel DSM-5 (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) non c’è, non è quindi considerata come un vero e proprio disturbo psicologico. Ma non tutto quello che esiste nella realtà è sempre stato ben classificato dagli esseri umani, ed inoltre, a sentire Martina, pare che i sintomi siano più che reali per lei (e non solo per lei).

Partiamo dalla canzone e cerchiamo di capire meglio cos’è la cherofobia e se esista davvero questa “paura della felicità”.

Come te la spiego la paura di essere felici 
quando non l’hanno capita nemmeno i miei amici. 

Prima caratteristica sulla quale soffermarci: non saperlo spiegare agli altri. Ok, questo succede un po’ con tutti i disturbi, perché quando si prova a descrivere la propria sofferenza a qualcuno che non la vive si finisce sempre per sentirsi profondamente soli. Così, oltre al dolore della patologia in sé, si finisce per potarsi dietro anche un dolore aggiunto: il sentirsi incompresi.

Ma l’incomprensione non è un sintomo specifico della cherofobia, è più che altro un “accessorio”, non siamo ancora arrivati al cuore della questione, quindi, andiamo avanti…


Mi dicono di stare calma quando serve 
mi portano del latte caldo e delle coperte. 

Ecco, qui possiamo intravedere un sintomo più specifico: il freddo interiore, l’angoscia, l’ansia (che gli altri tentano di tamponare con le forme più disparate di conforto). L’impossibilità di stare calmi in una situazione che per gli altri è del tutto normale.

Ed è proprio quando stanno a parlare che vorrei gridare 
grazie a tutti 
ora potete andare, 
ma resto qui 
a guardare un film.

E siamo alla terza caratteristica: la ricerca di isolamento, la necessità di chiudersi in una realtà conosciuta (guardare un film), che quindi non faccia paura, e che, magari, sappia distrarre. Perché il cherofobico ha bisogno di estraniarsi dalla realtà, ha bisogno di allontanarsene.

Ed evita, evita tutte le situazioni (sociali, cambiamenti di vita, occasioni) che potrebbero condurlo a un miglioramento della sua condizione essendo convinto del fatto che immediatamente dopo la sensazione di felicità arriverà di certo qualcosa che rovinerà tutto.

E’ questo il punto focale della cherofobia.

Si dice, per semplificare, che il cherofobico abbia paura della felicità, ma in verità, il cherofobico non ha paura della felicità in se stessa, ha paura di quando questa felicità non ci sarà più.

Ha sempre quella sensazione spaventosa ed invadente, subdola e nascosta, che anche nel momento più gioioso al mondo sia in attesa, da qualche parte, l’altro lato nefasto della medaglia: l’attimo in cui quel momento sarà passato e al suo posto ci sarà solo il vuoto, il dolore, il non senso.

Meglio non provare nulla allora, meglio non cambiare niente, almeno l’equilibrio attuale lo si conosce, si sa cosa aspettarsi, quali sensazioni sentire e quali non aspettarsi più.

Ma d’altra parte, come dargli torto?

Non è forse altamente probabile che ad una gioia possa seguire un dolore? Che un amore nato lasci prevedere anche la sua probabile fine, che ogni alba sia solo l’inizio del prossimo tramonto?

Così, per non soffrire, preferisco non gioire.

Sto fermo, nel mio stagno emotivo esistenziale ed evito accuratamente tutte le onde che potrebbero portarmi troppo in alto e poi farmi cadere giù.

Evito i cambiamenti potenzialmente favorevoli, perché potrebbero cambiare ancora e lasciarmi lì attonito con la bocca asciutta.

Evito le situazioni sociali troppo coinvolgenti, perché quando si saranno esaurite, mi sentirò più solo e sentirò assenze insopportabili da sentire.

Evito l’amore, perché quando finirà, potrebbe distruggermi.

In poche parole, evito di vivere, perché la morte mi farebbe troppo male e scelgo di sopravvivere.

Ma proprio a causa di questa soluzione di evitamento che adotto, proprio a causa del fatto che rinuncio alla felicità pur di non sentire la sofferenza, mi indebolisco.

Eh si perché, senza rendermene conto, è proteggendomi che mi metto più a rischio.

Perché se è vero che tutto cambia e che l’ombra è sempre dietro l’angolo, anche quello che in questo momento mi sembra sicuro e stabile potrebbe cambiare, spezzarsi, frantumarsi. Solo che, quando accadrà, io non sarà pronto a gestirlo, perché, come accade a chi si chiude in casa per evitare le malattie, non ho mai dato modo al mio “organismo esistenziale” di farsi gli anticorpi e quando arriva la malattia mi annienta davvero.

La soluzione a tutto questo?

Non si tratta sicuramente di convincersi che la felicità durerà per sempre (sarebbe ingenuo e sarebbe una illusione che aprirebbe le porte a tutte le delusioni successive), ma di comprendere che evitare la vita è proprio ciò che alimenta la paura di farsi male, perché evitando si diventa più vulnerabili, e più deboli.

La strada, quindi, è quella di vaccinarsi al dolore, alla sensazione di vuoto che coglie ognuno di noi quando una felicità sulla quale contavamo viene a mancare.

Armarsi interiormente, emotivamente, esistenzialmente per diventare capaci di fronteggiare le parentesi di dolore che possono esistere tra un periodo felice e l’altro, e perché no, imparare anche a coglierne i benefici nascosti, perché, come diceva la terapeuta Elizabeth Kubler Ross: La vita è come una centrifuga, sei tu che decidi se uscirne distrutto o ben levigato.


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Ti amo. Non ti amo. Non lo so. Nel dubbio: AIUTO!

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<<Ti amo. Tu mi ami?>>

Eccolo, il panico che sale.

<<Si…>>

Risponde timidamente…

<<Ma è vero? Vero vero vero???>>

Ed ecco che inizia il loop nella testa: “Oddio, forse non è vero. Forse non tanto quanto dovrebbe essere. Forse dovrei sentire più emozioni, sentire di più la mancanza, e quel battito continuo nel cuore una volta che sono alla sua presenza.Forse, dovrei anche non vedere nessun altro al mondo oltre lui, o oltre lei. Dovrei volermi sposare in ogni istante della mia vita, e respirare la sua aria e non poter fare a meno dei suoi occhi e… e… e… oddio… forse non è vero amore!”

Ci siamo! Eccolo! Questo è il perfetto dialogo interno di chi è affetto da quello che da poco è stato etichettato come Disturbo Ossessivo Compulsivo da Relazione, vale a dire una sintomatologia ossessivo-compulsiva che ha il suo focus sulle relazioni intime e che solo di recente ha iniziato a ricevere attenzione sia dal punto di vista clinico che di ricerca (Doron, Derby, Szepsenwol, 2014).

Cos’è e come funziona?

Semplice, anche se tormentoso per chi ne è affetto, si tratta di vere e proprie ossessioni che possono riguardare la relazione che si vive o caratteristiche più specifiche del proprio partner… o entrambe le cose, se si è particolarmente fortunati 😉

I dubbi e i pensieri ossessivi che riguardano la relazione suonano più o meno come il dialogo interno di cui sopra: “amo o non amo? E come faccio a sapere se amo? E se credo di amare, come faccio ad essere sicuro che provo ciò che dovrei provare? E cosa provo in realtà? Sto davvero bene o lo penso soltanto? E come so che il mio partner mi ama davvero?” E via dicendo. Tanti modi allegri e divertenti per mettere in dubbio qualsiasi cosa e riempirsi di paranoie ad alto contenuto ansiogeno insomma.

Quando i sintomi ossessivi sono focalizzati sul partner allora i pensieri vanno più ad analizzare le caratteristiche fisiche dell’altro, in base alla creatività di ognuno e qui ogni persona è diversa, perché ci sono sempre modi originali per essere folli ;-). Magari ci si fissa su quel punto del naso che proprio non riusciamo a sopportare, o sull’angolazione del viso che ci da fastidio non si sa bene perché, o su come ride, o sul tono di voce che ha, o su come respira e come muove la testa quando dice di SI.

Il tutto è molto, molto difficile da gestire, perché (se hai questo disturbo lo sai e se non lo hai prova ad immaginarlo), soprattutto se non vuoi prendere in giro nessuno o comunque se non vuoi perdere tempo e vuoi essere certo di stare vivendo la relazione “giusta” per te, proverai a mettere in atto una serie di comportamenti per trovare risposte alle domande continue che ti vengono in mente.

Quali comportamenti? Eccone alcuni:

  1. Prestare una continua attenzione ai propri sentimenti per assicurarsi che siano “veri”: è un po’ come tentare di afferrare una farfalla… più le vai dietro, più ti sfuggirà. I pensieri annebbieranno le sensazioni e finirai per non sentire più nulla se non la tua paura folle di non sentire nulla. Fantastico vero? Più cerchi di capire, meno capirai. Più cerchi di sentire, meno sentirai. Più cerchi la sicurezza, meno la avrai. Più rincorrerai la certezza, meno la troverai.
  2. Prestare continua attenzione ai propri comportamenti: sto guadando qualcuno? Perché ho guardato quello lì o quella lì? Forse allora non voglio davvero bene al mio partner? Forse non mi basta? Sto cercando altro? Questo significa che potrei tradirlo/la?” E così via su questa linea. Così, comportamenti che per gli altri sono normalissimi (magari ti sarai già sentito/a dire che anche se si è fidanzati gli occhi continuano ad esserci e che sono fatti per guardare ecc, ecc…), per te diventano fonte di ansia e angoscia. La paranoia continua che siano la prova del tuo non amore. Ecco allora che, magari, inizi ad evitare cose che potrebbero turbarti. Magari non vai alle feste per paura di incontrare qualcuno che attiri la tua attenzione, oppure quando cammini per strada stai a testa bassa nella speranza di non incrociare nessuno sguardo interessante e costruisci intorno a te, man mano, una piccola prigione in cui sentirti al sicuro per il semplice fatto che è priva di stimoli, visto che ogni stimolo che non sia il tuo partner e che ti generi delle sensazioni piacevoli ti manda nel panico. Solo che, sai cosa succede quando si vive in una gabbia? Prima o poi ti viene voglia di evadere. Ed è davvero un peccato, visto che nella gabbia ti ci sei messo/a da solo/a proprio per paura di trovare chissà che cosa fuori.
  3. Confrontare la propria relazione con quella di amici, parenti, film e telefilm o con altre relazioni passate o con le opinioni degli altri: un altro modo per tentare di mettere fine ai dubbi continui su ciò che si prova e sull’autenticità di ciò che si prova, sono i continui confronti. “La coppia di Alfredo e Marianna sembra meno innamorata di noi, però Marco e Giovanna sono più belli e più stabili. Oddio ma io dall’esterno sembro più come Diana o come Vanessa? E perché in quel film dicono di provare quelle cose e io non le provo?”. Confronti su confronti che se anche per un attimo sembrano tranquillizzarti, poi ecco che arriva un dettaglio, una parola o uno sguardo che ti rimette in crisi e riparte il loop, e l’ansia, e l’angoscia.
  4. Aggrapparsi con le unghie e con i denti a momenti della propria storia in cui si è miracolosamente sentito l’amore esattamente come si pensa di doverlo sentire sempre: “dai ma quella volta però mi sono sentito/a così e colà”, “quel giorno ero così felice, se ero così felice vuol dire che sono innamorato/a no?” ecc, ecc, ecc…
  5. Lasciarsi spesso e volentieri: un’altra soluzione che alcuni adottano per testare i propri sentimenti è quella di lasciarsi più o meno una volta alla settimana. Si arriva così tanto al punto di essere soffocati dai propri pensieri ossessivi, che pur di sentire un po’ di sollievo mentale, si decide sistematicamente di lasciare il partner, per poi piombare in una sensazione di mancanza totalizzante, arrivare al punto di sentire bello nitido il dolore e quindi dirsi “ohhh… lo vedi che lo amo? Ah, adesso posso tornarci insieme!”. Si vive in questo stato di estasi sentimentale per un giorno, un’ora o una settimana e poi, SBAM; eccolo di nuovo lo stimolo X che fa tornare i dubbi e il circolo ossessivo riparte.

Si può uscire da tutto questo? Certamente si. Con le giuste strategie.

Eccone 3:

  1. La prima mossa da fare in avanti è capire che tutti questi dubbi non sono il sintomo di poco amore, ma di uno stile di pensiero ossessivo. Ora lo so che ti sentirai un attimo di sollievo ma che subito dopo ti dirai “eh, ma come faccio a sapere che è davvero il mio caso? Magari SEMBRA il mio caso, ma non lo è!”. Ecco, questo pensiero, è solo un’altra manifestazione del disturbo. Quindi, vai avanti a leggere 😉
  2. Smettere di cercare confronti con gli altri: interrompere i tentativi di confronto che li per li ti rassicurano ma che poi ti riportano nei loop. Quindi, niente chiacchierate kilometriche con le amiche, né letture disperate di quello che dice la gente sui forum ecc. STOP all’aiuto da casa! Ok?
  3. Evitare di evitare situazioni, persone, e cose simili per paura che ti cada l’occhio su qualcuno ecc. per iniziare a pensare che più cercherai di capire, sentire e scoprire quello che provi veramente, meno lo saprai. L’obiettivo dovrà essere uscire dal proprio cervello per tornare dentro le sensazioni e restarci anche quando esse saranno ambigue, ambivalenti e instabili. Ed imparare, a poco a poco, a rimanere tranquilli nonostante la mancanza di assoluta certezza e fermezza emotiva. Ma anzi, tollerare i movimenti della propria vita emotiva mentre si costruiscono bei momenti da “semplicemente” vivere con il proprio partner.

Infine, se la cosa è davvero disturbante per te e da solo/a non riesci a tirartene fuori ricorda che puoi richiedere un appuntamento anche via Skype cliccando qui.

Intanto puoi anche iniziare ad utilizzare un’app molto utile (purtroppo però esiste solo in inglese) che aiuta a fare un piccolo training quotidiano per rendere le proprie percezioni più flessibili rispetto all’amore e alla propria relazione. Puoi trovarla qui.

La tormentosa questione dell’Elastico attaccato alla schiena

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Avete mai provato la sensazione di non riuscire ad andare avanti nella vita?
Come se ci fosse un elastico, un enorme elastico che vi lega, indietro, da qualche parte alle vostre spalle.
E voi fate di tutto per divincolarvi, per tentare di liberarvi, ma l’elastico vi lega là e se con enorme sforzo, riuscite a fare quei 2, 3 passetti che le persone “normali” fanno fischiettando, la felicità non dura che pochi minuti, perché immediatamente dopo, proprio a causa della forza che avete voi stessi esercitato per muovervi in avanti, l’elastico avrà la spinta per rigettarvi indietro, con violenza, tanta più violenza quanta più forza avete impiegato per fare quei due miseri passi in avanti.
E “SBAM”, sarete nuovamente sbattuti al palo a cui è legato l’elastico, ancora una volta, e poi ancora, e ancora, e ancora, senza possibilità di scampo.

Così alternate momenti in cui vi arrendete (e vi deprimete) perché non c’è davvero nulla da fare a riguardo (l’elastico esiste, ed è più forte di voi), a momenti in cui, dopo il riposo della resa, risentite la voglia di riprovarci, di nuovo, con più forza, con più furore, nella speranza di spaccare l’elastico ed essere finalmente liberi.
Ma la storia si ripete: “SBAM”, 2 passi avanti e 700 indietro…

E allora? Che si fa? Come se ne esce?
Eh, non lo nascondo, è un bel casino… ma di certo, guardando il disegnino che mi è venuto in mente questa mattina mi appare evidente (e forse apparirà evidente anche a voi) che la prima cosa da fare per interrompere il circolo vizioso (o sarebbe meglio dire il “molleggiamento” vizioso) sia INTERROMPERE IMMEDIATAMENTE TUTTI I TENTATIVI FOLLI E DISPERATI DI FARE QUEI DANNATI PASSI IN AVANTI. Perché più lottiamo per andare avanti, più l’elastico ci ricondurrà dietro e, quel che è peggio, lo farà proprio con lo slancio che noi stessi gli avremo offerto sforzandoci di fare i passi in più.
Quindi, primo consiglio del giorno contro l’elastico: SMETTI DI DARE SLANCIO AL TUO ELASTICO.


 

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Ribellarsi alla Paura: un dialogo estivo

Ho una grande famiglia. Grandissima, se conto cugini di primo e di secondo grado, più i diversi zii, saremo più di 100. Questo perché mio padre è il nono di 9 fratelli, mia nonna è vissuta fino a 100 anni e pur essendo un po’ dispersi per il mondo (c’è chi vive in America, chi in Canada, chi in diverse città di Italia), ogni anno ci ritroviamo in Calabria per la festa di famiglia, la seconda domenica di agosto.

Quest’anno non è stato da meno e insieme agli altri cugini ho rivisto una cara cugina di New York, illustratrice, con la quale mi sono intrattenuta spesso a parlare di un po’ di questioni psico-esistenziali.

Una di queste è stata sulla “paura”.

  • <<Si Roby, perché vedi, noi siamo abituati ad evitare le cose di cui abbiamo paura, ed è una reazione naturale no? Però in realtà dovremmo fare tutt’altro!>>
  • <<Eh, si, lo so, anche in psicologia le cose stanno così sai? Più eviti qualcosa perché ne hai paura, più questa cosa ti farà paura nel tempo>>
  • <<Esatto! Perché se scappi da qualcosa dai conferma a te stesso che c’è un pericolo… anche se magari, in realtà non c’é>>
  • <<O peggio, se ci fosse davvero, scappando lo rendi insuperabile>>
  • <<Ma poi c’è anche un’altra cosa sai…>>
  • <<Dimmi…>>
  • <<Si dice che ciò che ci fa più paura è proprio ciò che forse ci verrebbe meglio>>
  • <<Mmh ma, aspetta, se mi fa paura buttarmi da una rupe non significa che se ci provassi volerei…>>
  • <<No no, non intendo questo. E’ ovvio, ci sono cose che ci fanno paura perché sono realmente pericolose per noi. Ma ce ne sono altre che ci fanno paura solo perché, affrontandole, farebbero venire fuori un potenziale sopito che non abbiamo ancora il coraggio di guardare in faccia. Io per esempio, che sono un’illustratrice, ho paura di disegnare i paesaggi. Temo che mi vengano male capisci? Di non esserne capace. Così non li disegno mai. Ma questo è sbagliato. Se non disegno mai paesaggi sarò sempre limitata, e tutto solo a causa della paura di scoprire di non saperli disegnare>>.
  • <<E’ così. Se evitiamo di fare le cose di cui abbiamo paura, continuando a scappare, e scappare e ancora scappare, finiremo per circoscrivere la nostra vita in dei limiti ristrettissimi, dove le cose in cui ci sentiremo a nostro agio saranno talmente poche che la vita perderà del tutto di sapore. Anzi! Sai che mi viene in mente? Qualche tempo fa leggevo di una tipa che per sfida propone di fare una cosa nuova ogni giorno, anche piccola, giusto per abituare il proprio cervello ad affrontare il cambiamento, che poi è quello che ci fa più paura>>.
  • <<Mmh… una cosa nuova ogni giorno? Interessante!>>
  • <<Eh si, e pensa come sarebbe ancora più liberante affrontare una piccola paura ogni giorno. Perché secondo me la gente si blocca difronte alle cose che le spaventa perché si immagina di dover affrontare tutta la paura in una volta, ma non è così che funziona! Quelle sono vere e proprie terapie d’urto, che a volte generano più traumi che guarigioni. Io invece sono per il fare un passetto al giorno, al contrario di ciò che suggerisce la paura, smettere di esserne schiavi insomma, di eseguire i suoi ordini, ribellarsi un po’…>>
  • <<Gli ordini della paura…>>
  • <<Eh si, esatto. Perché più esegui i suoi ordini, più ti convinci che lei è la tua padrona! Mica eseguiamo gli ordini di chi non ha autorità ai nostri occhi, no? E siamo noi a darle autorità!>>
  • <<Giusto… eseguendone gli ordini…>>
  • <<Esatto. Quindi il punto è iniziare ad esservi meno devoti. Diventare pian piano dei ribelli nei suoi confronti. Dei rivoluzionari alla fine, facendo il contrario di quello che ci suggerisce. Tipo: tu hai paura di disegnare paesaggi? Bene, disegnane uno ogni giorno. Io ho paura di scrivere articoli poco interessanti? Bene, ne scriverò uno al giorno, e così via…>>
  • <<Esatto! E’ quello che sto facendo. Ma poi che succede?>>
  • <<Eh, ci ho fatto un piccolo disegno su quello che succede… lo vuoi vedere?>>
  • <<Certo!>>
  • <<Eccolo qua… 

Paure


 

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Attacchi di panico: 4 cose che li alimentano

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MA DA COSA DIPENDONO I TUOI ATTACCHI DI PANICO?

Sto camminando tranquillamente per la via che faccio ogni giorno, sono tranquillo, non ho nessun pensiero particolare, finché (Oh mio dio) succede qualcosa dentro di me!

Il battito cardiaco accelera, il respiro si affanna, qualcosa dentro di me inizia a cambiare, un formicolio sinistro. Cerco di calmarmi, ma appena mi guardo intorno per capire cosa fare ecco che tutto mi sembra stranissimo, come se non fosse reale, come se non fosse il mondo in cui stavo tranquillamente passeggiando fino a un minuto prima.

Ho paura. Una paura immensa di morire, di impazzire, di perdere il controllo prende il sopravvento.

Cerco di mantenere il controllo, ma… niente da fare, sempre peggio! Una specie di terribile ondata di malessere universale mi stravolge. Non ho più il controllo, potrebbe accadermi di tutto. Non so cosa stia succedendo. Non capisco più nulla… sono in balia completa di questo enorme, orribile, stravolgente, nero, pauroso attacco di panico.

Eccoci qui, nella mente di chi soffre di attacchi di panico.

Un attacco di panico ti sconvolge, ti cambia, crea una linea di demarcazione tra ciò che eri prima e ciò che sei dopo.

Perché dopo… dopo non sarà più possibile uscire come se niente fosse…

“E se riaccadesse?”, inizi a chiederti.

“E se accadesse proprio quando non dovrebbe, proprio quando non c’è nessuno ad aiutarmi?”;

“E se accadesse mentre guido?”

“E se accadesse mentre devo fare quella cosa importante?”

“E se riaccadesse e basta???”.

Questi i pensieri che si affollano nella mente.

E queste sono le soluzioni per correre ai ripari:

  1. Evitare le situazioni che spaventano: meglio non andare più in quel cinema, in quel supermercato, su quella strada, in quel posto… meglio evitare. Meglio stare a casa… Ma più evito una cosa, più la rendo paurosa, e più la rendo paurosa, più la evito chiudendomi in un circolo vizioso dove la mia soluzione non fa che peggiorare la mia situazione.
  2. Chiedere aiuto: se proprio devo farlo, meglio farmi accompagnare. E se mi accadesse qualcosa? E se mi venisse di nuovo l’attacco di panico? Come farei? Come potrei mai sopravvivere? Ho bisogno di qualcuno. Ma più mi aiutano, più dentro di me mi convinco di non potercela fare in autonomia, e più mi convinco di questo, più affrontare le cose diventa difficile, e più diventa difficile, più chiedo aiuto, innescando un loop in cui l’aiuto che ricevo, invece di aiutarmi, mi rende ancora più incapace.
  3. Controllare continuamente i propri sintomi: per evitare che si manifesti di nuovo l’attacco, sto sempre lì a controllare che tutto sia a posto, il cuore, il respiro… ma più controllo reazioni che dovrebbero spontanee, più le altero, e più le altero, più mi spavento, e più mi spavento, più mi auto-genero un altro bell’attacco di panico.
  4. Prendo precauzioni: xanax o tavor da portare dietro e prendere all’occorrenza, oppure una mappa precisa di tutti i prontosoccorso limitrofi ai luoghi che frequento, perché… non si sa mai. Ma più tento di rassicurarmi con queste precauzioni, più in realtà mi convinco che accadrà qualcosa (altrimenti non avrei bisogno di rassicurarmi), e più mi convinco che accadrà qualcosa, più starò in allerta, ma più starò in allerta, più il mio cuore accelererà e il mio respiro cambierà, e più il mio cuore accelererà più io mi spaventerò e più mi spaventerò più…. indovina un po’… mi farò venire l’attacco di panico.

Il punto è proprio questo, non è che siamo stupidi, nessuno vuole avere gli attacchi di panico, solo che a volte, per cercare di tenere sotto controllo la situazione, adottiamo delle soluzioni che invece di risolvere il problema, lo fanno peggiorare!

La terapia strategica aiuta proprio in questo. Grazie ad un protocollo ad hoc creato per la risoluzione completa degli attacchi di panico senza dover ricorrere ai farmaci, permette al paziente di eliminare tutte le soluzioni disfunzionali e insegna, al loro posto, le strategie adatte non per gestire o “convivere” con gli attacchi di panico, ma per debellarli, completamente e per sempre.

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